Guerra ai deep fake, Cristiana Falcone: promuovere uso etico dell’intelligenza artificiale

Guerra ai deep fake, Cristiana Falcone: promuovere uso etico dell’intelligenza artificiale

La Danimarca propone una legge pionieristica per riconoscere la proprietà intellettuale sul volto e sulla voce: si apre il dibattito su un’etica della rappresentazione digitale

Nel cuore dell’Europa, un piccolo Paese sta cercando di rispondere a una delle minacce più insidiose dell’era digitale: l’uso illecito dell’identità personale attraverso l’intelligenza artificiale. La Danimarca, spesso pioniera nel campo dei diritti civili e delle politiche sociali avanzate, ha proposto una riforma legislativa che potrebbe segnare una svolta epocale nella regolamentazione dei contenuti generati artificialmente. 

L’obiettivo dichiarato è quello di riconoscere ai cittadini il diritto d’autore sulla propria immagine, voce e tratti somatici, trattando la persona stessa come un’opera creativa tutelata giuridicamente. È una proposta audace, che sposta il baricentro giuridico dalla difesa della reputazione al riconoscimento pieno dell’identità come bene immateriale, indisponibile e inviolabile.

La questione dei “deepfake” non è più solo una curiosità tecnologica. I video, le immagini e gli audio manipolati da sistemi di intelligenza artificiale sono ormai diventati strumenti potenti di manipolazione, frode, disinformazione. Si tratta di contenuti capaci di replicare in modo iperrealistico il volto, la voce, i gesti di una persona, al punto da rendere indistinguibile il vero dal falso. I numeri parlano chiaro: secondo un rapporto del 2024, le creazioni deepfake sono aumentate del 700% in un solo anno, con l’Europa tra le aree più colpite. 

Se inizialmente questi strumenti erano confinati alla sfera dell’intrattenimento o della satira, oggi vengono sfruttati in contesti molto più gravi: estorsioni, frodi finanziarie, campagne di diffamazione e persino propaganda politica. 

È in questo contesto che la Danimarca propone un approccio dirompente, fondato su un principio semplice quanto rivoluzionario: nessuno dovrebbe poter utilizzare la tua identità senza il tuo consenso.

Per Cristiana Falcone, figura di spicco nel campo della filantropia e delle strategie globali, membro attivo del network WIL Europe (Women in Leadership) ed ideatrice del Business Ethics Summit, “ciò che rende la proposta danese particolarmente innovativa non è solo il contenuto normativo, ma la visione culturale che la sottende.” 

Non si tratta, infatti, di rincorrere l’abuso ex post, tentando di provare il danno morale o patrimoniale, come spesso accade con le normative europee oggi in vigore: la Danimarca ribalta l’onere della prova, e cioè se un contenuto AI riproduce in maniera realistica una persona senza autorizzazione, scatta automaticamente la possibilità di richiederne la rimozione e, nei casi più gravi, un risarcimento.

Non è più necessario dimostrare di essere stati diffamati o offesi; basta l’assenza di consenso. “È un cambiamento profondo – commenta Cristiana Falcone – che potrebbe ridefinire il rapporto tra individuo e piattaforme digitali, soprattutto in un momento storico in cui la fiducia nel mondo online è sempre più fragile.”

Questa svolta giuridica assume un significato ancora più rilevante se inserita nel dibattito etico che si sta sviluppando attorno all’uso dell’intelligenza artificiale.

Cristiana Falcone: “Da più parti si invoca la necessità di adottare modelli di innovazione tecnologica che non perdano di vista la centralità dell’essere umano. Non è un caso che a fianco della riforma danese si siano schierati non solo politici e giuristi, ma anche artisti, attivisti, docenti e imprenditori sensibili al tema della responsabilità digitale. La posta in gioco riguarda a la possibilità di affermare un principio: l’identità non è un contenuto tra i tanti, ma un’estensione della dignità umana.

Se da un lato il progetto danese ha raccolto un ampio consenso, dall’altro non mancano interrogativi e critiche. Alcuni studiosi si chiedono se sia giuridicamente sostenibile trattare la persona come se fosse un’opera artistica. Altri sollevano dubbi sulla tenuta del modello in ambito transnazionale, soprattutto in un contesto dove le piattaforme digitali operano su scala globale e spesso sfuggono alla giurisdizione europea. E ancora, c’è chi teme che norme troppo rigide possano ostacolare la libertà di espressione o soffocare la creatività artistica, laddove le eccezioni per satira e parodia si rivelassero di difficile applicazione pratica. Ma il dibattito è aperto, e questo è già un segnale importante.

Per il mondo imprenditoriale e tecnologico, la proposta danese rappresenta un campanello d’allarme e al contempo un’opportunità. Le aziende che operano con sistemi di AI generativa, contenuti sintetici o piattaforme di condivisione dovranno necessariamente rivedere le proprie policy: non solo per evitare sanzioni, ma anche per costruire modelli di fiducia con i propri utenti. La governance dei dati biometrici, il consenso esplicito all’uso dell’immagine, i sistemi di moderazione e di etichettatura dei contenuti diventeranno elementi strategici e giuridici. 

È molto probabile che ciò che oggi si sperimenta in Danimarca possa diventare, nel giro di pochi anni, uno standard europeo? Durante la prossima presidenza danese dell’Unione, prevista per il 2026, Copenaghen ha già dichiarato che porrà la questione all’ordine del giorno: se ciò accadrà, ci troveremo di fronte a una trasformazione culturale prima ancora che normativa.

Al di là delle norme, questa proposta solleva una domanda che non può più essere ignorata: cosa vuol dire essere sé stessi nell’era digitale? In un mondo in cui l’immagine può essere clonata, manipolata, diffusa, chi detiene davvero il controllo della nostra identità? La risposta danese, al netto dei limiti e delle complessità, sembra voler riaffermare un principio essenziale: il corpo, la voce, i tratti di una persona non sono una risorsa a disposizione della rete, ma elementi inviolabili della persona stessa

È da qui che si può ripartire per costruire un ecosistema tecnologico più giusto, dove l’innovazione non diventa un alibi per violare i diritti, ma uno strumento al servizio della libertà individuale.

Nel tempo in cui “vedere” non significa più “credere”, stabilire che la realtà di una persona non può essere decisa da un algoritmo è forse il gesto più etico e rivoluzionario che una democrazia possa compiere.