La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso proposto da Google avverso la sentenza del primo Giudice, con la quale era stata condannata a provvedere alla deindicizzazione di talune URL diffamatorie dalle ricerche del ricorrente ed a risarcire il danno.
Il ricorrente – vittima del delitto di diffamazione da parte di un collega che aveva pubblicato una serie di pagine web dai contenuti inveritieri – per arginare i gravi danni inflitti alla sua reputazione online, nel dicembre 2017 si rivolgeva agli avvocati Angelica Parente e Domenico Bianculli, affinché presentassero a Google richiesta di rimozione delle notizie diffamatorie dagli indici di ricerca correlati al suo nome, ai sensi delle leggi europee sulla privacy. Il Team di Google, tuttavia, rigettava la richiesta, motivando che le notizie per le quali si richiedeva la rimozione erano di sostanziale interesse pubblico, dato che riguardavano la vita professionale del richiedente.
Rimasta la richiesta senza esito, gli Avvocati Parente e Bianculli sottoponevano la questione al Tribunale Civile di Milano. All’esito del giudizio, il Tribunale adìto sottoscriveva le ragioni dell’istante e liquidava in via equitativa il danno, tenuto anche conto del rifiuto opposto dalla resistente alla richiesta di rimozione dei contenuti e delle lesioni che ne erano conseguite.
Google ricorreva dinanzi alla Corte di legittimità, ma la Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarando inammissibili e infondati i motivi proposti dal colosso americano. In particolare, la Corte di Cassazione ha ricordato come Google, pur essendo un prestatore di servizi di hosting che ospita informazioni pubblicate da terzi, diventi “responsabile con riguardo al contenuto delle informazioni quando a) egli sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; oppure b) egli non agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti”.
Commentando, insieme al nostro ufficio stampa, la sentenza, gli Avvocati Angelica Parente e Domenico Bianculli hanno sottolineato come “il danno in presenza di una lesione ai diritti personalissimi, come quelli invocati dal nostro patrocinato, è per definizione un danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare […] in quanto pertiene al ristoro del pregiudizio rappresentato dalla sofferenza interiore, o danno morale (sub specie di dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione)”.
Con questa sentenza della Corte di Cassazione si riafferma il principio per il quale “Google è responsabile dei contenuti che ospita nei risultati di ricerca ogni volta che viene a conoscenza della loro illiceità”, concludono gli Avvocati, ricordando anche come la Corte abbia affermato “il principio secondo cui la domanda di deindicizzazione, ai fini della sua determinatezza, non deve per forza contenere la precisa individuazione degli indirizzi telematici (o url), ma, a seconda delle circostanze, è sufficiente una puntuale rappresentazione delle singole informazioni associate alle parole chiavi della ricerca che si rivelano comunque idonee a dare contezza della cosa oggetto della domanda”.

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